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il 2010 annus horribilis per le nuove generazioni, nord italia peggio della media
Emorragia-lavoro per i giovani
Mezzo milione di licenziamenti
Nell'indagine di Datagiovani la conferma che s'ingrossa sempre più la fila dei Neet
il 2010 annus horribilis per le nuove generazioni, nord italia peggio della media
Emorragia-lavoro per i giovani
Mezzo milione di licenziamenti
Mezzo milione di licenziamenti
Nell'indagine di Datagiovani la conferma che s'ingrossa sempre più la fila dei Neet
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Giovani senza occupazione, cresce la generazione Neet |
LO SCENARIO - Il centro di ricerche Datagiovani, studiando come si è evoluta la condizione delle nuovi generazioni (sotto i 35 anni) attraverso gli indicatori Istat, traccia un'istantanea preoccupante. Che assume maggior peso specifico, se si ragiona in termini previdenziali, con i nati dopo il 1975 che mediamente - al termine della loro vita lavorativa - percepiranno meno dell'assegno sociale. In dati disaggregati si tratta di circa 210mila giovani che hanno perso il posto di lavoro, a cui vanno aggiunti circa 220mila persone che sono passati dalla condizione di "occupato" a quella di "inattivo", perché si sono rimessi a studiare o perché sono semplicemente scoraggiati. In termini assoluti - rileva l'istituto - sono circa 686mila gli under 35 alla ricerca di occupazione.
LA GEOGRAFIA DELLA "TENSIONE" - E non sorprende che la caratteristica forma a stivale del Belpaese sia in termini - occupazionali - di fatto ribaltata. A soffrire maggiormente le ragioni del Nord, quelle teoricamente deputate a trainare il Paese in termini di produttività. Piemonte, Lombardia, Veneto - modelli di specializzazione produttiva basata sulla combinazione tra le avanguardie nel settore dei servizi (Milano e Torino, le capofila) e il tessuto delle pmi, fortemente presenti nel Nord-est - non riescono ad attrarre forza-lavoro giovane come dovrebbe (impoverendo il Paese anche in termini di innovazione e dinamismo). E soprattutto - scrive Datagiovani - si caratterizzano per un elevato rischio di cessazione di rapporti esistenti (circa il 25% dei disoccupati del 2010 è rappresentato da ragazzi che l'anno prima lavoravano nelle regioni settentrionali). Mentre rispondono meglio - si fa per dire - Molise, Campania e Calabria, probabilmente per un mercato del lavoro molto più statico. Che tende a reagire con maggiore lentezza, in termini positivi come negativi, alla jobless recovery. In un'Italia sfiduciata, preda della speculazione dei mercati e sull'orlo di una nuova recessione.
Fabio Savelli
10 agosto 2011 16:44 Corriere della sera © RIPRODUZIONE RISERVATA
10 agosto 2011 16:44 Corriere della sera © RIPRODUZIONE RISERVATA
Poco preparati per entrare in azienda
di Claudio Tucci il Sole 24 ore 30 luglio 2011
In questo articolo

Poco preparati per entrare in azienda
Investire in istruzione come antidoto alla crisi. Lo ha ricordato a maggio scorso l'ex governatore di Bankitalia, Mario Draghi nella sua ultima relazione annuale da numero uno di palazzo Koch. Ma lo dimostrano anche i dati ufficiali. Quelli più recenti, del Cnel per esempio, che hanno evidenziato come il titolo di studio non metta al riparo (in assoluto) dalle difficoltà. Tra il 2007 e il 2010 l'occupazione tra i "colletti bianchi" under 34 è calata di 41mila unità (meno 3,7%).
In ogni caso meno di quanto sia diminuita tra i ragazzi con titoli di studio più bassi. Per chi aveva in tasca solo un diploma, nello stesso quadriennio in esame, la contrazione è stata del 9,7% (pari a meno 246mila unità). Ancora peggio è andata ai giovani con sola licenzia media che hanno lasciato sul campo ben 380mila posti (meno 24,1%, sempre tra il 2007 e 2010). L'aver finito l'università poi (in una condizione di disoccupazione) consente un più agevole ingresso nell'occupazione.
Ma sono diversi ancora i nodi da risolvere. A partire da una crescita più robusta del numero di laureati. Nel 2004-2009 la quota di dottori tra i 30 e i 34 anni è aumentata appena dal 16% al 19%. Un livello molto lontano dal 40% da raggiungere nel 2020 fissato dalla Commissione europea. Bisogna fare di più. Come pure sul fronte delle risorse: l'Italia, tra pubblico e privato, spende in istruzione lo 0,88% del Pil (la Germania l'1,07%, il Regno Unito l'1,27%, la Francia l'1,39%, gli Stati Uniti il 3,11%). C'è poi da fare i conti con un gap (in alcuni settori, molto vistoso) tra formazione dei ragazzi e mercato del lavoro. Emblematico è il caso dei diplomati tecnici, di cui le imprese (ultime rilevazioni Excelsior-Unioncamere) hanno forte bisogno, ma non riescono a trovare.
Di «disallineamento di competenze» parla spesso il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, che ha portato a casa giovedì un importante riforma, quella dell'apprendistato, che punta proprio (attraverso un mix di formazione e pratica sul campo) a ridurre questo problema. Anche l'apertura del collocamento agli istituti scolastici va in questa direzione. Ma lo sforzo principale deve arrivare dalla scuola e dalla sua capacità, ha ricordato il ministro Mariastella Gelmini, di sfornare giovani competenti. Ancora oggi infatti molte aziende non si fidano della preparazione dei ragazzi. Lo scorso anno a un convegno alla «Sapienza» anche l'ex presidente dell'Invalsi, Piero Cipollone ha rilanciato questo aspetto, parlando dell'esame di maturità. Una prova che costa all'Erario circa 200 milioni e poi, due mesi dopo, le università, con i test d'ingresso, valutano nuovamente le competenze delle neo matricole. E spesso le giudicano non all'altezza.
In ogni caso meno di quanto sia diminuita tra i ragazzi con titoli di studio più bassi. Per chi aveva in tasca solo un diploma, nello stesso quadriennio in esame, la contrazione è stata del 9,7% (pari a meno 246mila unità). Ancora peggio è andata ai giovani con sola licenzia media che hanno lasciato sul campo ben 380mila posti (meno 24,1%, sempre tra il 2007 e 2010). L'aver finito l'università poi (in una condizione di disoccupazione) consente un più agevole ingresso nell'occupazione.
E, dati AlmaLaurea, il titolo di "dottore" ha un "peso" in busta paga diverso dal semplice diploma. Tra i 25 e i 64 anni d'età la retribuzione di un laureato risulta più elevata del 55% rispetto a quella percepita da un lavoratore che si è fermato al semplice diploma di maturità. Insomma, quello che (per ora) non riesce a fare la crescita (che per l'Italia resta debole sia per il 2011 sia per l'anno successivo), potrebbe arrivare da un maggiore investimento nella scolarizzazione dei ragazzi.
Ma sono diversi ancora i nodi da risolvere. A partire da una crescita più robusta del numero di laureati. Nel 2004-2009 la quota di dottori tra i 30 e i 34 anni è aumentata appena dal 16% al 19%. Un livello molto lontano dal 40% da raggiungere nel 2020 fissato dalla Commissione europea. Bisogna fare di più. Come pure sul fronte delle risorse: l'Italia, tra pubblico e privato, spende in istruzione lo 0,88% del Pil (la Germania l'1,07%, il Regno Unito l'1,27%, la Francia l'1,39%, gli Stati Uniti il 3,11%). C'è poi da fare i conti con un gap (in alcuni settori, molto vistoso) tra formazione dei ragazzi e mercato del lavoro. Emblematico è il caso dei diplomati tecnici, di cui le imprese (ultime rilevazioni Excelsior-Unioncamere) hanno forte bisogno, ma non riescono a trovare.
Di «disallineamento di competenze» parla spesso il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, che ha portato a casa giovedì un importante riforma, quella dell'apprendistato, che punta proprio (attraverso un mix di formazione e pratica sul campo) a ridurre questo problema. Anche l'apertura del collocamento agli istituti scolastici va in questa direzione. Ma lo sforzo principale deve arrivare dalla scuola e dalla sua capacità, ha ricordato il ministro Mariastella Gelmini, di sfornare giovani competenti. Ancora oggi infatti molte aziende non si fidano della preparazione dei ragazzi. Lo scorso anno a un convegno alla «Sapienza» anche l'ex presidente dell'Invalsi, Piero Cipollone ha rilanciato questo aspetto, parlando dell'esame di maturità. Una prova che costa all'Erario circa 200 milioni e poi, due mesi dopo, le università, con i test d'ingresso, valutano nuovamente le competenze delle neo matricole. E spesso le giudicano non all'altezza.